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Trasformazione Aziendale

Conoscere la “resistenza al cambiamento” in epoca di Digital Disruption

La “resistenza al cambiamento” è un fenomeno comune, specie in epoca di Digital Disruption. Questo articolo analizza la fisiologia del fenomeno all’interno delle aziende, suggerendo ai manager un approccio originale per il suo superamento.

Aura Tiralongo
Aura Tiralongo
digital disruption e resistenza al cambiamento

Quando si parla di trasformazione digitale, non è raro imbattersi nell’espressione “digital disruption”: un neologismo che sta ad indicare l’ingresso - e l’impatto - del processo di digitalizzazione nei diversi aspetti della realtà contemporanea, siano essi legati alla vita quotidiana o al mondo aziendale e produttivo. Rispetto alle diverse espressioni che definiscono l’epocale transizione al digitale (rivoluzione digitale, digital transformation, trasformazione digitale, ecc.), la Digital Disruption pone l’accento su un elemento centrale dell’acquisizione più o meno fluida degli strumenti tecnologici. Vale a dire l’impatto del cambiamento sul piano di convinzioni, abitudini, aspettative e comportamenti delle persone.

Stringendo il focus alla realtà delle organizzazioni, è indubitabile che i leader aziendali si siano trovati, e si trovino tutt’ora, a dover garantire la sopravvivenza del business in un mondo sempre più ambiguo e instabile. Le sfide che si sono profilate negli ultimi anni, non ultima la situazione di estrema emergenza dettata dalla pandemia, hanno messo in discussione frontalmente metodi e strumenti tradizionali di approccio alla gestione dei processi aziendali.

In realtà, già prima dell’epoca pandemica le fonti specializzate richiamavano il mondo manageriale a un cambiamento di mentalità, e all’acquisizione di un “digital mindset” aperto all’imminente rivoluzione. La progressiva estensione della digitalizzazione, infatti, promette già da tempo sfide, ma anche buone occasioni di crescita e di innovazione aziendale. Per questo è così importante che i leader sappiano come garantire un un “change management” strategico, ossia un  approccio strutturato che renda possibile la transizione da un assetto esistente a un futuro assetto desiderato. E questo anche in vista di un più compiuto coinvolgimento e di migliori prestazioni da parte dei team.

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Perchè l’auspicio diventi realtà, devono però essere forniti alle persone strumenti utili a riconoscere il senso del cambiamento e a comprenderlo. Il che significa anche prendere sul serio e imparare a gestire l'impatto umano generato dalla transizione - in questo caso tecnologica.

In questo processo, il manager gioca un ruolo da protagonista e facilitatore, essendo chiamato a preservare il cambiamento salvaguardando l’equilibrio del team e dei suoi componenti. Come sottolineato dalla Prof.ssa Vlatka Hlupic 

 

La leadership svolge un ruolo fondamentale nella gestione del cambiamento.

“Dobbiamo considerare le organizzazioni come organismi viventi e vedere come tutto al suo interno sia interconnesso. Serve un approccio olistico, che ci aiuti a vedere la correlazione tra i valori individuali, le credenze, i modelli mentali e il cambiamento organizzativo.”

Tuttavia, possono capitare congiunture particolarmente difficili. Un esempio è dato dall’impatto della pandemia, che ha generato una corsa alla digitalizzazione in chiave nettamente emergenziale. Non inaspettatamente, in molti contesti aziendali la transizione è stata a dir poco rocambolesca, a scapito di una digital disruption davvero matura, graduale, e dunque in grado di non generare sentimenti di disagio, insicurezza o addirittura rifiuto nelle persone.

Senz’altro, l’adozione acritica o frettolosa dello strumento tecnologico da parte dei leader non può dare buoni risultati. Come si diceva, il mondo degli affari è in primo luogo un ecosistema umano, e qualsiasi forma di cambiamento, anche quello tecnologico, presuppone un cambiamento di mentalità che passa dalla relazione e dalla comprensione delle persone. Comprese le loro paure ed idiosincrasie.

 

Resistenza al cambiamento: se la conosci, sai come gestirla

Il tema della percezione del cambiamento e delle reazioni psicologiche ad esso collegate impegna la letteratura scientifica internazionale fin dagli esordi dell’epoca industriale. L’attuale assetto VUCA della realtà produttiva (e non solo) rilancia l’importanza della questione: come farsi trovare pronti per le sfide dettate dalla digital disruption?

In questo presente di gravi incertezze, la massima eraclitea del “tutto scorre” si esprime ai suoi massimi livelli. I mutamenti sono vorticosi, spesso improvvisi, e come qualsiasi forza generano reazioni in varie direzioni. Molte di queste reazioni sono oppositive, dirette al mantenimento dell’equilibrio e dello status quo. Ed ecco cosa si intende quando si parla di “resistenza al cambiamento”. 

Ci sembra significativo un dato: alcuni studi attribuiscono a queste spinte conservative il fallimento del 70 per cento dei progetti di innovazione delle organizzazioni. Ogni ambiente organizzativo, infatti, è accomunato da meccanismi difensivi, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Non si può negare: l’abbandono di ciò che è noto è, in generale, un momento critico. Come a dire che un impulso alla conservazione è in parte fisiologico. La resistenza al cambiamento tecnologico da parte delle persone in epoca di Digital Disruption non fa eccezione.

Ed è, storicamente, un banco di prova particolarmente importante per le aziende, e per la loro capacità di attraversare con successo momenti critici e di transizione. Senza dubbio, la resistenza  al cambiamento è  un fenomeno  che influenza  il processo di innovazione aziendale. Può ritardarne l’inizio, ostacolarne l’implementazione e aumentarne i costi. Per questo è così importante mettere a fuoco le componenti della resistenza al cambiamento e i loro legami con la Digital Disruption.

Tenendo presente, come sottolinea il prof. Filippo Ferrari, docente di organizzazione aziendale all’Università di Bologna, che uno dei contributi più citati in assoluto (Markus, 1983) dalla letteratura internazionale sui sistemi informativi riconduce le cause di resistenza al cambiamento tecnologico a tre categorie di elementi:

  • fattori soggettivi riferiti agli individui e ai gruppi coinvolti (ad es. la mancanza di conoscenza sul progetto che genera diffidenza o rifiuto della novità);
  • caratteristiche intrinseche dei sistemi (ad es. prestazioni insoddisfacenti offerte dalla soluzione tecnologica);
  • interazione tra l’artefatto tecnologico e il contesto organizzativo in cui il sistema stesso va ad inserirsi (ad es. quando l’introduzione di un certo software influisce sulla distribuzione interna del potere, è molto probabile che chi si sente sfavorito manifesti la propria opposizione attraverso un atteggiamento di resistenza.1

Gli studi di Markus, tuttavia, necessitano di essere attualizzati alla luce delle attuali circostanze. Per questo è utile chiedersi: quali sono ad oggi i fattori “conservativi” che possono condizionare negativamente la Digital Disruption?

Vediamoli:

  • “Si è sempre fatto così” 

Le persone percepiscono la digitalizzazione come uno sforzo aggiuntivo rispetto ai compiti richiesti, e si appellano a soluzioni consolidate e apparentemente più “economiche”, anche sul piano delle energie personali.

  • Digital divide

Il ritardo digitale è ancora molto elevato, e le persone non hanno - o ritengono di non avere - competenze e risorse sufficienti per affrontarlo.

  • Approcci top-down

Le persone si affidano a strutture gerarchiche, ritenendole più ordinate e razionali. Ci si rifà ad approcci piramidali al lavoro, e a modalità operative “rassicuranti” perchè validate dall’esperienza (lavoro manuale, ricorso al cartaceo, ecc.)

  • Interventi sporadici alla digitalizzazione

Tentativi di digitalizzazione eccessivamente automatizzati, sporadici e non supportati da una effettiva efficacia degli strumenti nell’interazione con la persona, possono essere interpretati - anche a ragione - come iniziative controproducenti. Questo genera nelle persone sentimenti di insoddisfazione e di frustrazione, e la sensazione che il tempo investito nella transizione digitale potrebbe essere impegnato in modi più produttivi.

Come è chiaro, non si tratta di giudicare e contrastare in modo miope la resistenza al cambiamento, ma di capire i motivi che la generano. Perchè questa operazione possa riuscire, è necessario un approccio che eviti tradizionali polarizzazioni e dicotomie. Evitando alcuni pregiudizi.

 

Resistenza al cambiamento: l’importanza di soluzioni “illuminate”

Già da anni, alcune ricerche mettono in luce come la maggioranza degli studi considerino la resistenza al cambiamento un fenomeno avvertito dal management, ma dovuto ai livelli subordinati.2 Quasi tutti questi approcci si concentrano sulla prevenzione della resistenza, non offrendo soluzioni per superare la sua concreta manifestazione. Sulla comprensione della resistenza al cambiamento dunque, ricorre una debolezza di fondo: ossia l’incapacità di interpretare tutte quelle situazioni, che sono di fatto la maggioranza, in cui si può osservare la compresenza di combinazioni variabili di opposizione e di accettazione del cambiamento.

Uno scenario, questo, di centrale importanza nel legame con la Digital Disruption. Che impone un approccio che amiamo definire “illuminato”. La parola chiave di tale approccio è: “progettazione”.

 

Non c’è percorso di innovazione se non c’è condivisione - a tutti i livelli - del percorso intrapreso e delle sue finalità.

Quando si parla di Digital Disruption, la “semplice” previsione degli effetti delle tecnologie sulle persone, non è sufficiente. Nè ci si può affidare a una visione che “de-responsabilizza” il management, considerando i sottoposti l’unica fonte di resistenze e ritrosie.

Al contrario, è necessaria una progettazione intergrata e partecipata fra tecnologie, organizzazione del lavoro e competenze delle persone. Tradizionalmente, invece, si tende ad analizzare la transizione al digitale alla luce di due dati di fatto: da una parte si auspica il totale affidamento ai fornitori di tecnologia; dall’altra si denuncia la resistenza al cambiamento delle strutture e delle persone, in larga parte cresciute entro modelli organizzativi e culturali gerarchici e fordisti. 

Una matura progettazione dovrebbe invece essere in grado di gestire la concretezza della resistenza al cambiamento avvalendosi della partecipazione delle persone e intercettando la loro crescita professionale e umana. Il che implica un maturo “governo della complessità” e uno stile di leadership orientato alla relazione, basato su una visione strategica condivisa.

La domanda che mette in prospettiva il cambiamento è: “Se non cambiamo, cosa accade?”. Solo in questo modo è possibile creare la consapevolezza di una meta e di una visione comune, a cui ognuno - con il proprio ruolo - è chiamato a contribuire. Rispetto alle visioni canoniche, un approccio illuminato della resistenza al cambiamento mette a fuoco che il motore del cambiamento non è uno stimolo “top-down”, che “emana” dalla direzione generale ai livelli più bassi. Piuttosto, si dovrebbe parlare di una “contaminazione” fra i livelli, che combini il cambiamento pianificato in direzione top-down e la sperimentazione bottom-up dell’organizzazione.

Ecco cosa significa per un manager uscire dall’ottica emergenziale e avviarsi a un processo di digital disruption strutturato, strutturale. E illuminato. Come ribadito dal Prof. Federico Butera, sociologo dell’organizzazione e Presidente dell’Istituto di Ricerca e Intervento sui Sistemi Organizzativi:  “Il problema non è solo quello di uscire dall’area di turbolenza, ma di essere resilienti navigando su lunghe tratte”.3

È necessario saper adattare la strategia alla concretezza del lavoro e delle competenze delle persone, accogliendo i loro feedback e i loro desiderata. Riassumendo: non c’è percorso di innovazione se non c’è condivisione - a tutti i livelli - del percorso intrapreso e delle sue finalità.

 

Digital Disruption e resistenza al cambiamento: le chiavi del successo

Alla luce di queste premesse, quali sono, nella pratica, le “montagne da scalare” per incoraggiare un cambiamento di “mindset” (mentalità), che getti le basi per una matura digital disruption? Tre le Colonne d’Ercole:

  • Partnership
  • Cooperazione in team integrati
  • Manager come abilitatore

Quello fra risorse interne e risorse tecnologiche messe a disposizione dai player IT, non deve essere inteso come un semplice rapporto “cliente-fornitore”. Instaurare una partnership significa sposare un progetto congiunto, e tagliato sulle caratteristiche del cliente. Solo in questo modo si è in grado di offrire un’impostazione strategica ai progetti di digitalizzazione, invogliando una vera cooperazione in team integrati.

Ed ecco la seconda Colonna d’Ercole: le risorse messe a disposizione dal fornitore non devono essere intese come strumenti “applicati” al progetto, ma come tecnologie “tagliate” sul progetto. Fra management e direzione IT dovrebbe instaurarsi una relazione virtuosa, tesa all’abbattimento dei confini fra ruoli e linguaggi. Il coinvolgimento condiviso e partecipato dovrebbe inoltre avvenire non solo nella fase di esecuzione e implementazione della tecnologia, ma già quando si vanno a stabilire i bisogni e le aspettative alla base del progetto.

Come è chiaro, il manager ha un ruolo di cruciale importanza in questa impostazione. L’introduzione di soluzioni digitali necessita di un accompagnamento che prenda sul serio caratteri e routine dell’operatività aziendale. Per questo, il manager è ben più di un esecutore, ma anzi un vero e proprio abilitatore della transizione al digitale. Sarà lui, infatti, a incarnare il cambiamento richiesto, sostenendo i comportamenti virtuosi e incoraggiando la percezione di un valore positivo annesso alla transizione. Perchè se il percorso di cambiamento è una strada, il leader detiene la bussola che indica l’orizzonte. E la direzione utile al viaggio. 

Dunque. Gestire la “resistenza al cambiamento” a fronte dell’impatto spesso dirompente della Digital Disruption in azienda, implica un’ottica di progettualità e di partecipazione di tutti i livelli dell’organizzazione. In questa chiave, le tecnologie digitali possono costituire un aiuto a una progettazione strategica matura e non traumatica.

Vuole saperne di più sulla Trasformazione Digitale?

1La Resistenza al Cambiamento: cos’è, come misurarla e fronteggiarla”, Ferrari F., in Personale e Lavoro - Rivista di Cultura delle Risorse Umane n. 618, 2020.

2Challening “resistance to change”, Dent e Galloway-Goldberg, 1999.


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Aura Tiralongo
Aura Tiralongo
L'autore
Aura Tiralongo ha pluriennale esperienza in scrittura professionale ed è docente all’Università IULM di Milano. In Sherpany ha il ruolo di Content Manager, sviluppando interviste e approfondimenti per il mercato italiano.